Racconto vincitore: "L'equilibrista", di Valentina Avanzini
Classificati a pari merito:
Loredana Villani, Mirca Coruzzi, Danilo Coppe, Mendez Walter Jose
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1° CLASSIFICATO: VALENTINA AVANZINI
L'EQUILIBRISTA
Succede, come succedono tante altre cose nella vita di un uomo, di cadere.
Precipitare giù, e ancora e ancora , come una foglia autunnale, giù dalla fune fino alla polvere.
Rompersi in tanti pezzi, dentro, che anche guarito non so se vorrò alzarmi più.
Mentre solcavo quel vuoto immenso, ho pensato: “Non è giusto”, ma forse avevo solo dimenticato di tenerlo in conto: non era scritto nel copione, ma è accaduto, come accadono tante altre cose nella vita di un uomo.
E così, ora, io ho trentacinque anni e ho, avevo, una vita appesa a un filo spesso, sospeso tra il tendone, che era la mia casa colorata, e la pista, giù, lontana lontana.
Ho trentacinque anni e ora ho una vita stesa nel letto dell'ospedale, con un tubicino nel braccio e il gesso un po' ovunque.
Ho, per la prima volta dopo tanto tempo, una vita ferma e ben salda per terra, ma che è tanto più fragile e incerta di quella di prima.
Ho una vita vicino alla finestra, che se appena alito si appanna tutta, ma non posso toccare quello che c'è di fuori.
Ho trentacinque anni, una vita stabile ma come di vetro e un nome un po' inusuale, il nome antico del sole.
Una volta, questo nome che vesto era scritto un po' ovunque, sui lampioni, sui muri e sugli alberi, perché a tanti piaceva andare a vedere Elio che camminava su quella corda, quasi invisibile dal basso, e si appendeva, faceva una bella capriola e poi tornava su.
E anche a me piaceva tanto stare lì.
Perché di lì, me lo sentivo, sarei potuto scappare, avrei potuto lasciare la corda e scivolare nell'aria, avrei aperto le ali, o – meglio – sarei diventato una stella e sarei salito fino in cielo.
Perché nel cielo, lassù, vicino alle stelle e al sole e alla luna, c'è anche la mia Valeria.
Ci è volata un giorno che io avevo lasciato casa da poco, per andare nel circo.
Quando papà aveva urlato, mamma aveva pianto e anche Valeria, che mi aveva aspettato fuori, piangeva: perché lei, lo sapevo, voleva finire di studiare e avere una casa, due bambini e qualche vestito bello da mettere nelle occasioni importanti. E un paio di scarpette rosse.
Tutte cose che un equilibrista non avrebbe potuto assicurarle.
Lei aveva pianto, ma non mi aveva mai chiesto di cambiare idea.
Poi, un giorno, era venuta da me e aveva detto: “Io muoio”.
Ed era morta davvero, quella stessa notte in ospedale, a ventisei anni per un aneurisma al cervello.
Il dottore diceva che era successo, così, senza troppe spiegazioni, perché quella malattia lei l'aveva dalla nascita, ma non lo poteva sapere, nessuno poteva sapere che Valeria fosse nata con dentro qualcosa che l'avrebbe ammazzata.
Io avevo paura che fosse morta perché l'avevo appesa al filo con me e lei non era stata capace di restare in equilibrio.
Credevo fosse colpa del mio egoismo e avevo pianto tanto.
Le ho regalato le scarpette rosse con cui è stata sepolta.
A volte, se penso a lei, se penso a me, mi chiedo se forse io non porti sfortuna.
Se forse non fossi io, quella cosa nata dentro Valeria, con Valeria, che poi l'ha uccisa.
Sono io, alla fine, che mi sono fatto cadere giù dalla corda, è colpa mia.
E' colpa mia anche la rete che non c'era, sotto, a tenermi, perché il rischio attirava spettatori e io lo accettavo.
E' colpa mia anche mio padre che voleva un figlio medico e mia madre che mi voleva solo a casa.
Dovrò stare più attento in futuro.
Rischio di fare male.
Di questo passo non diventerò mai una stella, resterò sempre un sole vecchio, in disuso, che fa anche un po' ridere.
“Elio”, così mi chiamo e così mi ha chiamato mia madre, che è appena entrata qui da me e ormai non mi vede da così tanto tempo, che non sembra nemmeno volersi avvicinare.
“Elio”, mi chiama ancora.
E chissà quali immagini, quali dolori si accompagnano a quel nome, nella sua mente.
E' invecchiata, mia madre, porta ancora il rossetto rosso e la collana di perle che le ha regalato papà, ma la pelle intorno è raggrinzita e cadente.
Così, penso, così più o meno deve essere una persona quando muore, non bella e sorridente com'era la mia Valeria.
Ma mia madre sta bene, sorride un poco, ma sembra più imbarazzo che affetto.
Forse anche lei mi trova cambiato.
Chissà com'è la mia faccia, da fuori.
Non com'è fatta, dico, quello posso vederlo anche allo specchio, intendo com'è guardarla, notare quella piccola cicatrice che mi sono fatto da bambino, cadendo dall'altalena, riconoscerla e sorridere vedendo che è ancora lì.
Com'è, insomma, riconoscere un uomo, quando quell'uomo sono io?
Mia madre finge disinvoltura e mi tocca una mano, ma la ritira subito.
Dice che papà non sa che è lì, non deve saperlo, perché sennò si arrabbia.
Ma lei è qui. Perché?
Mi guarda per un po' e poi mi chiede di tornare con loro, almeno dopo che ... insomma, lo so.
So cosa?
“Quando morirai, ecco”, dice e intanto sospira come se avesse buttato fuori una parola di cento tonnellate.
Invece sono solo sette lettere: M-O-R-I-R-A-I.
Ma quanto pesa quella parola?
Comunque, mamma, di questo potremmo parlare a tempo debito.
Mi sono solo rotto in tanti pezzi, che prima o poi si aggiusteranno.
Lei mi guarda un po' stupita.
C'è qualcosa che dovrei sapere?
Mi formicola la pancia, come per un presentimento.
“Il dottore non ti ha detto nulla?”
“Nulla di cosa?”
“Dell'emorragia interna”.
In quel momento entra proprio lui, il dottore, ma ormai è già tardi e gli basta uno sguardo per capirlo.
Quindi non era solo una sensazione, quella di essermi rotto anche dentro.
Sembra imbarazzato e ha ragione di esserlo.
Non avrebbe dovuto dirlo prima a lei che a me, non è stato piacevole saperlo in questo modo, che devo smettere di considerarla scontata, la mia vita.
Esce. Meglio così.
Torno a mia madre.
Mi guarda, ha gli occhi lucidi e sembra che voglia piangere.
Me lo chiede così, sull'orlo delle lacrime, di tornare a casa, almeno ora, e farmi seppellire nel mausoleo di famiglia.
Tornare al mio posto, dopo tanti anni.
Guardo la donna che mi ha dato alla luce e non mi riconosco in lei.
Sono io a prenderle la mano.
Hanno scelto loro di farmi nascere, volevano impedirmi di scegliere come vivere. E ora?
Scuoto piano la testa. Lei singhiozza.
Mi dispiace che muoia anche tu ...
“Non è un problema. Succede, come succedono tante altre cose nella vita di un uomo”.
Ci penso un attimo.
“Che poi, alla fine, non è tanto per morire, quanto per la vita che ci sta dietro: lunga, corta, disgraziata. E' quella che dispiace.
Io, ad esempio, alla tua ci ero affezionato. E poi è stata così breve, come la coda di una stella cadente”.
Non pensarci più. Succede.
E grazie per le scarpe.
“Erano quelle che desideravi?”
Proprio quelle.
“Bene”.
Sollevo la coperta e mi guardo il torace.
E' quasi incredibile pensare che dentro mi stia esplodendo tutto.
Che io mi uccido.
Anche perché non sento nulla, forse è merito della morfina.
Anch'io ci ero affezionata ...
“A cosa?”
Alla tua vita.
“Anche se ha fatto soffrire tanta gente? Anche se ha fatto soffrire te?”
L'hai appesa a un filo. E' normale.
“No. Io l'ho messa in equilibrio su un filo. Non mi pento. E' stata la mia scelta”.
E adesso cosa farai?
“Non ci sono le funi, dopo?”
No, non credo.
“E se non posso fare l'equilibrista, cosa faccio?”
Non lo so. Devi scegliere.
“E' difficile, sai? Potrei ascoltare mia madre”.
Ne sarebbe contenta.
“Contenta, si, ma anche ipocrita. Quella della famiglia unita sarebbe una recita, poco di più.
Anche perché non lo siamo più da anni. Da quando me ne sono andato”.
No. Da quando ti hanno lasciato andare. La verità è questa.
“Troppa verità può far male, sai?”
E troppa ipocrisia?
“Uccide. E' per questo che non voglio andare con loro, Valeria.
Perché io, io voglio uccidermi con questo mio sangue. Per questa mia scelta che ha fatto di me quello che sono, che ero. Se non posso scegliere di nascere, se non posso scegliere di morire, io voglio la libertà di decidere cosa essere durante la vita e durante, dopo la morte.
E' questo che ha fatto di me un equilibrista, è questo che non farà di me un bel corpo in una bella tomba in una bella recita a cui non voglio partecipare”.
E allora cosa vuoi essere dopo?
“Una stella”.
Una stella?
“Si. Una stella. Bella, luminosa. Come te”.
Sento che Valeria sorride, perché io sono stupido e gli stupidi hanno di bello che ogni tanto fanno sorridere.
Elio, ma io non sono una stella.
Mi disarma. E allora cosa? Cosa?
Io sono una persona morta. Sono polvere, ormai.
“E allora io voglio esser polvere come te. Per poter diventare come la terra che mi ha ucciso, per poter volare nell'aria che mi ha ospitato una vita intera. E non essere più un corpo, perché i corpi sono fatti per vivere e diventare polvere dopo la morte, col tempo.
Aiuterò il tempo e lo sarò da subito.
E così ...”
E così?
“Ci sarà spazio per me, lì con te, se divento piccolo piccolo, se mi faccio cenere?”
Ti aspetto da nove anni, Elio.
A mamma non l'ho detto.
Ci penseranno quelli del circo, al mio funerale.
Mi bruceranno e poi andrò a vivere con Valeria. Come voleva lei.
Mi bruceranno e poi andrò a morire con Valeria.
Nella polvere che saremo, chi potrà più distinguere? Chi potrà giudicare? Chi potrà capire?
E' la salvezza che ho sempre cercato, sopra la fune.
La vita di stella che sognavo non è nulla al confronto.
Ecco, lo sento, mi annega il corpo questo mio sangue.
Papà, hai visto? L'ho fatto davvero. Forse non mi credevi ancora capace. Credevi che sarei tornato subito indietro. Invece sono andato tanto avanti da morire per la mia scelta, perché così è la vita dell'equilibrista: una volta partito puoi solo sperare di arrivare in fondo.
Tu che volevi un figlio medico ti ritrovi un disgraziato che muore a trentacinque anni, ma di una morte serena, e non potrei chiedere di meglio che non sapere cosa succede dentro, ma vederlo da fuori e sentire, sentire che io mi uccido. Non vorrei che lo facesse nessun altro.
Mamma, tu invece non piangere. Di morire succede.
Quando hai voluto mettermi al mondo lo sapevi che avresti corso il rischio.
Il rischio di seppellirmi.
Anche se tu non mi seppellirai, perché la vita di un equilibrista non può terminare che alla fine della fune.
E alla fine della mia fune non ci sei tu. Non ci sei mai voluta stare.
Valeria, tu che mi hai aspettato sempre, concedimi ancora qualche minuto.
Sento tutto dentro che esplode e dilaga, un incendio di troppa vita, e per quella io muoio.
Chissà se morire sarà come nascere ancora.
Nascere e diventare qualcosa di nuovo, trasformarmi, sottile e diverso, non pesante, non vivente come sarei comunque, ma – Valeria è questo che importa... - uguale a te.
L'hai sentita anche tu la vita che ti scorreva via dalle dita delle mani? Che si spargeva tutta in terra?
La mia vita.
Ti ho amata e odiata tanto e ora che te ne vai ...
Mi mancherai, vita, come mancano tutte le cose care, è venuto il momento di salutarci.
Un ultimo abbraccio prima di partire.
Te ne vai come gli amici, con gli amici e i dolori e tutte le dolcezze, e ogni cosa che sono riuscito ad accumulare in questi trentacinque anni.
E la mia fune chissà chi la userà, ora?
Dimmi, Valeria, invece la morte è per sempre?
Io credo che mi sommergerà come un'onda, sarò polvere di me e di te, di quello che resta.
Mi basterà, nella morte, la morte stessa, come nella vita mi è bastata la vita.
Non ho paura.
Vorrei guardarti negli occhi come hai fatto tu: “io muoio”, hai detto; “io muoio” ti dico.
Ed è una promessa, se posso promettere ancora.
Posso farlo, Valeria?
Cosa sono io ora?
Sono un uomo in equilibrio sopra un filo più fragile, non posso tornare indietro, non ho mai potuto farlo: la vita dell'acrobata inizia sulla pedana, vive sul filo e, quando arriva dall'altra parte, muore.
Ancora un passo e mi dissolverò in uno scroscio di applausi, diventerò stella per un attimo perché le stelle infine bruciano e, finita la magia, ci sarà solo cenere e quella verità di ogni volta alla fine della fune: io muoio.
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Classificati a pari merito:
SEMI DI BASILICO
Morirò.Prima o poi.
Avrò cura di non lamentarmi
Sarò docile con gli eventi,
preparerò con cura il mio
trapasso e accetterò l’inevitabile.
Ma tu,sìì gentile,trova
Per me,un posto accogliente.
Scegli un angolo con vista,
uno spicchio di giardino al sole
dove a marzo fioriscano le viole
e le rose a maggio profumino;
fai di me concime per fiori.
Prepara la mia casa,
fa che la terra sia gentile,
che mi scaldi d’inverno e
m’ombreggi d’estate,
fa’ che di notte,io senta
le cicale d’agosto e a
marzo i gatti in amore.
E poi,in inverno,la neve
Come una trina preziosa
Ricopra e nasconda i miei peccati
E d’un bianco spolverar
Di zucchero nutra in silenzio,tra
Lucertole e vermi in letargo,
il ricordo e un piccolissimo
rimpianto…ma piccolo…
come un seme di basilico.
LOREDANA VILLANI
COME FARFALLA
Come farfalla volerò nel vento,
inafferrabile, lieve,
come foglia danzerò nell’aria
sbriciolandomi al sole,
nessun peso ad ancorarmi alla terra,
nessun dolore a macerare la carne.
Non cercatemi, non sono più qui,
non disperatevi, non vado più via.
MIRCA CORUZZI
LA TERRA AI VIVI
La terra ai vivi
Per farci crescere gli alberi,
per farci giocare i bambini.
I fiumi ai vivi per lavare le colpe,
per bere i ricordi.
Il vento ai morti,
per portar via le ceneri,
le pene e i dolori.
MIRCA CORUZZI
DALL’OSCURITA’ ALLA LUCE
Era il 14 marzo del 1980.Venerdì.In ufficio si lavorava solo fino alle due,poi incominciava il fine settimana per noi assicuratori. Un fine settimana che prometteva bene e che già pregustavo. L’aria era fresca e il cielo terso. Fuori soffiava una bora leggera. Ad un tratto sento Gabriele,il più alto in grado dell’ufficio,che spiegava a qualcuno con voce assai forte e sicura:” No,no .Non è la bora che spazza il cielo dalle nuvole. Le nuvole sono a migliaia di metri d’altezza e la bora soffia si e no fino ai
Gabriele ricopriva l’incarico di procuratore speciale,ed era anche un esperto in meteorologia. Sotto di lui c’era Mario, che era funzionario,poi c’era Roberto capoufficio,poi venivamo noi
impiegati e infine due segretarie Annamaria e Vivien. Gabriele e Mario erano entrambi romani,avevano lavorato alla Riunione Adriatica di Sicurtà di Milano per poi trasferirsi a Trieste,sempre in RAS ma alla Direzione Estero,nel bellissimo palazzo situato in centro,in uno slargo chiamato Piazza della Repubblica,a metà di via Mazzini.Il palazzo è di inizio del Novecento e si trova all’interno del borgo Teresiano,un borgo storico di Trieste chiamato così in onore dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria che fece costruire il borgo nel diciottesimo secolo.
Nel momento in cui Gabriele tuonò il suo concetto sull’indipendenza tra bora e nuvole,io stavo guardando dalla finestra perché aspettavo che il computer stampasse alcuni tassi di mortalità che mi servivano per fare una quotazione ai dirigenti del Gruppo Olivetti. Dall’altra stanza sentii una delle segretarie,Vivien,fare una battutaccia ad alta voce,dicendo qualcosa contro i romani che vengono ad insegnare ai triestini cos’è la bora. Ci scambiammo una occhiata di sottecchi con Roberto e ci venne da sorridere.
I tassi con le probabilità di morte insieme ai corrispondenti premi,uscivano dalla stampante pigramente. Ogni riga stampata faceva il suono di una cornacchia. Non esistevano stampanti a laser. Avevo controllato tre o quattro righe a caso ed i calcoli erano giusti,così mentre aspettavo che il computer terminasse tutta la quotazione mi misi a guardare le due statue che stanno sul edificio di fronte,nel palazzo Terni-Smolars. Con la bora una di esse moveva leggermente un braccio,tanto che sembrava ci salutasse. Anche la mattinata trascorreva lentamente e non lasciava presagire alcuna sorte avversa;tutto sembrava filare liscio,tra una settimana sarebbe cominciata la primavera.
Del tutto inconsapevole di quello che si stava preparando lavoravo duramente per il prossimo ciclo di incoscienza. Intorno alle 11 ricevetti una telefonata di mia madre. La cosa mi sembrò strana,non mi chiamava mai al lavoro. Ci volle qualche secondo per rendermi conto che stava singhiozzando. A mala pena riuscivo a capire. Mi disse che le avevano trovato un tumore in testa.
Non seppi dire niente. Solo ottuse parole di consolazione passeggera:”Vedrai che non è niente…”.Lei continuava a singhiozzare. Ed io:”non ti preoccupare…sicuramente non è come ti hanno detto”. Riattacco. Le avevo parlato in spagnolo per non farmi capire dagli altri. Usavamo fare così a casa,dato che i miei genitori emigrarono negli anni Cinquanta ed io e mio fratello siamo nati a Montevideo e là siamo rimasti fino agli inizi degli anni ’70. Tra di noi era rimasta l’abitudine di parlare ancora in spagnolo.
Probabilmente in quel momento io dovevo essere sconvolto. Vivien entrò nella stanza e guardandomi mi chiese se avevo per caso visto un fantasma. Non seppi cosa dirle e abbozzai un sorriso. Nei minuti che seguirono cercai davvero di convincermi che non poteva essere niente. Mamma si era sicuramente sbagliata,e se non lei il medico. Come se queste cose non ti possano accadere. Il mio lavoro era quello di calcolare le probabilità di morire per fare i tassi assicurativi. Ma muoiono sempre gli altri. Mamma era ancora giovanissima,aveva appena compiuto 49 anni. Aveva tutti i capelli neri. Allontanai subito il pensiero della morte. Tuttavia da qualche tempo mamma aveva giramenti di testa. Avevamo pensato fosse dovuto alla menopausa. Anche i medici che aveva consultato le dicevano che si trattava probabilmente di questo. I giramenti di testa si mescolavano alle vampate. I sintomi erano quelli. Una di essi,sembrava un caldarrostaio,l’ascoltava pazientemente e poi emetteva il giudizio climaterico. Nessun dubbio. Nessuna ricerca di diagnosi alternativa. Tutto normale. Nessuna riflessione a più piani,nessun tracciato che rivestisse una volontà di scoprire quale fosse il problema reale.
Per ogni problema complesso c’è sempre una soluzione semplice. Che è sbagliata.
Dopo un anno